La strage silenziosa delle forze dell’ordine

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Da Pietro Taccogna, segretario nazionale de “Lo scudo” riceviamo e pubblichiamo

Quando un rappresentante delle forze dell’ordine muore in servizio se ne parla su tutti i giornali e diventa
un eroe unanimemente riconosciuto. La colpa è della criminalità o, quando impegnati in missione di pace
(che di pacifico hanno sempre meno), del “nemico”, e quindi la reazione è accettata e condivisa da tutti.
C’è però una strage silenziosa, che non viene quasi mai pubblicizzata (meritorio, in tal senso, è l’impegno
controcorrente della rivista Carabinieri d’Italia, attenta al problema), e che ha raggiunto dimensioni
allarmanti. Sono sempre più numerosi, infatti, i Carabinieri che decidono di porre fine alla loro vita,
suicidandosi. I numeri di tale fenomeno sono poco noti, ma tali da non consentire di ritenere in alcun modo
che rientrino nella normale statistica dei suicidi dei depressi, dei patologici, dei malati di mente. Tutt’altro.
Spesso dietro il suicidio di un Carabiniere vi è la frustrazione nello svolgere il proprio lavoro, le vessazioni
subite (preoccupante è quanto sta emergendo in questi giorni riguardo al corpo dei Nocs), le legittime
aspettative deluse. Significativo è che talvolta i parenti delle vittime – di questo si tratta – non vogliono la
partecipazione ai funerali dei superiori del corpo di appartenenza.
A mio avviso, in queste dinamiche gioca un ruolo determinante anche la giustizia amministrativa che,
troppo spesso, non rende giustizia a provvedimenti che andrebbero vagliati ben più a fondo, trincerandosi
invece dietro tesi oltremodo restrittive o, addirittura, nella teoria dell’”ordine amministrativo”, cioè un atto
che non può di fatto essere messo in discussione, in quanto giustificato da prioritarie e prevalenti esigenze
di organizzazione correlate alla sicurezza. Ma siamo proprio sicuri che sia sempre così? O con tale
atteggiamento giurisprudenziale non si finisce per legittimare, piuttosto, anche trasferimenti punitivi,
disciplinari vessatori e dinieghi ingiusti di progressione in carriera?
Se i vertici di tali istituzioni, come dimostrano talune inchieste, sono stati talvolta coinvolti in inchieste per
gravissimi fatti, credo sia legittimo sospettare che anche dietro le carriere, i procedimenti disciplinari e i
trasferimenti coatti possa esservi in alcuni casi una decisione non esclusivamente meritocratica e
trasparente.
E allora, forse è il momento di iniziare a proteggere le forze dell’ordine anche sotto il profilo della
legittimità dei provvedimenti, e di scandalizzarsi veramente dei tanti, allarmanti, suicidi, di cui non
abbiamo spesso adeguata notizia, domandandoci il perché di tale crescente fenomeno e individuandone le
cause e, se del caso, i responsabili.

da “IL FATTO QUOTIDIANO” di Alessio Liberati
Dal profilo Facebook di Pietro Taccogna – 7 febbraio 2012
Parliamone senza ipocrisie. la cosa peggiore é quella di negare il problema, in nome di una falsa immagine
di “super-uomini” senza timori e sofferenze. Il muro che ci circonda – creato ad arte da chi afferma che “i
panni sporchi si lavano in famiglia” – serve spesso a nascondere che quei panni non si vogliono lavare. Non
siamo una amministrazione peggiore di altre, anzi, la Polizia é fondamentalmente sana, democratica e
saldamente legalitaria. Proprio per questo non dobbiamo e non possiamo negare che ci sono ancora aspetti
inquietanti nei rapporti interni, che causano amarezze e, a volte, veri drammi personali e familiari. Per
questo dobbiamo parlarne, senza remore.

Pietro Taccogna

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