Telecom, una triste storia di capitalismo italiano

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Sono in molti a stupirsi del passaggio di Telecom Italia sotto il controllo di Teléfonica. Ma i fatti di oggi sono la conseguenza di quattro passaggi chiave avvenuti tra il 1997 e il 2007.  Ripercorriamo le tappe di una storia in cui sono condensati tutti i vizi del capitalismo privato italiano.

 

UN FINALE GIÀ SCRITTO

La notizia che Telecom Italia è destinata a passare sotto il controllo della spagnola Teléfonica, ha avviato la pratica su larga scala di molti sport nazionali da parte di commentatori e politici, con una predilezione particolare per la disciplina detta “cadere dal pero”. Come è possibile che uno straniero controlli un settore vitale come la telefonia? Come è possibile che ciò accada solo in Italia? Come è possibile che gli spagnoli possano acquisire il controllo a un prezzo da saldo e comunque a un prezzo per azione superiore a quello di mercato, dunque in danno degli investitori piccoli e grandi?
Domande di puro buon senso, che peraltro suonano assai stonate, perché i fatti di oggi sono la pura conseguenza di quattro passaggi chiave avvenuti rispettivamente nel 1997 (anno della privatizzazione), nel 1999 (Opa di Roberto Colaninno e soci), nel 2001 (acquisizione senza Opa da parte di Marco Tronchetti Provera) e nel 2007 (acquisizione del controllo da parte di Telco, costituita da banche italiane e da Telefonica, sempre con distinti saluti all’Opa).
I primi tre passaggi sono stati spiegati e documentati con grande chiarezza in un libro di Giuseppe Oddo e Giovanni Pons di oltre dieci anni fa, che dimostra che la società era stata messa su una china da cui sarebbe stato molto difficile risalire. (1) Dunque, non ci sono domande da proporre con sdegno nei talk-show, facendo la boccuccia di chi è esterrefatto perché chi viene interrogato sull’argomento ha il dovere di conoscere i fatti che contano. Per chi invece ha il diritto di ignorarle o di averle dimenticate, vale la pena di ripercorrere le tappe dolorose della storia privata di Telecom Italia e in cui sono condensati tutti i vizi del capitalismo privato italiano.

LA MANCANZA DI UN NUCLEO STABILE DI AZIONISTI

La “madre di tutte le privatizzazioni” (l’operazione fu fondamentale per consentire al Governo Ciampi di ottenere in extremis l’ammissione dell’Italia all’euro fin dalla fase iniziale) non poté disporre di una rete di protezione costituita (come avrebbero voluto Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi) da azionisti disposti a investire nel lungo termine. Il gruppo Fiat, che attraverso l’Ifil aveva acquisito lo 0,6 per cento del capitale (“e capirai” avrebbe detto Alberto Sordi) non solo pretese di comandare, ma dimostrò subito di essere interessata al potere per il potere, piuttosto che alle strategie industriali. Le due imprese del settore (At&t e Unisource) che erano state selezionate dal Tesoro vennero immediatamente estromesse e una persona certo non ostile al gruppo torinese come Antonio Maccanico dovette ammettere: «ci fu una certa inconsistenza del nucleo stabile sulle scelte manageriali, forse dovuta al fatto che loro non conoscevano il settore».
La conseguenza di un’attenzione rivolta solo agli aspetti finanziari è stata che i nuovi acquirenti (così come quelli che si profileranno all’orizzonte dopo) vedevano nel colosso delle telecomunicazioni la grande redditività data dalla posizione monopolistica fino ad allora goduta. Nel 1998, cioè all’indomani della privatizzazione, la società era la quarta in Italia per fatturato e la prima per valore aggiunto; aveva un elevata redditività (l’utile superava l’11 per cento del fatturato) e praticamente non aveva debiti netti: gli oneri finanziari netti non raggiungevano il 2 per cento del fatturato. (2) Le risorse finanziarie generate dalla gestione (calcolate come somma di utile e di ammortamenti) ammontavano a circa 7,5 milioni di euro, quasi la metà del capitale netto. Un gigante, peraltro, con una forte capacità innovativa impegnata in una vigorosa concorrenza con Omnitel nel campo della nascente telefonia mobile. Dunque, tutt’altro che un passivo sfruttatore di rendite monopolistiche, anche se le vecchie strutture tariffarie e la dinamica assolutamente inattesa dei nuovi mercati consentiva di considerare la società come un tipico esempio di quello che, nei manuali di finanza, si definisce una cash cow. Ma gli azionisti del “nocciolino duro” riescono a litigare anche intorno a una torta così grande e dimostrano chiaramente di non avere una vera strategia industriale di lungo periodo. Logico che qualcuno cominci a pensare di prendere il loro posto.

NUOVI SCALATORI E VECCHIE SCATOLE CINESI

Le incertezze e i litigi dei primi mesi della vita di Telecom alimentano, secondo Oddo e Pons, piani di scalata più o meno audaci fin dai primi giorni dopo la privatizzazione. Sarà Roberto Colaninno, che ha raccolto in una finanziaria lussemburghese un gruppo assai variegato di soci, a lanciare nei primi mesi del 1999 l’offerta pubblica per acquisire il controllo della società. Colaninno scende in campo perché ha ottenuto un sostegno incondizionato di alcune grandi banche internazionali che gli mettono a disposizione un assegno in bianco di 60 miliardi di euro, quanto è necessario per dare il via all’operazione. Ma la strada è lunga e vi sono molte battaglie da combattere: quella decisiva è annunciata per l’assemblea straordinaria convocata dal consiglio di amministrazione, che ha un nuovo presidente in Franco Bernabé. Questi cerca disperatamente di evitare una soluzione che può portare (come di fatto avvenne) a rovesciare sulla società la montagna di debiti che hanno consentito la scalata. Il nuovo presidente ha in mente una strategia a due stadi: una difesa da Colaninno attraverso il lancio di un’Opa su Tim e un’alleanza a condizioni paritarie con Deutsche Telekom come premessa di una strategia industriale ambiziosa e internazionale. Entrambe, soprattutto la seconda, costruite frettolosamente e non prive di aspetti critici (Telekom è pubblica e ci sono forti resistenze da parte della politica tedesca sia alla privatizzazione, sia all’alleanza con italiani).
Ma Bernabé non riesce neppure a fare la prima mossa perché l’assemblea straordinaria va deserta: non si presentano né il Tesoro né la Banca d’Italia, in nome di una non meglio precisata “neutralità” imposta dal Governo, allora presieduto da Massimo D’Alema. Mario Draghi, che invece era favorevole a partecipare e valutare con l’assistenza di un advisor l’opzione più favorevole per gli azionisti, chiede e ottiene un ordine scritto. Esattamente come avviene nel grande film di Stanley Kubrick, Orizzonti di gloria, quando il generale fanatico ordina all’artiglieria di sparare sui propri soldati, colpevoli di essersi ritirati dopo un assalto impossibile.
Il successo dell’Opa comporta la vendita di Omnitel a Vodafone: un’operazione necessaria sia sul piano finanziario per Olivetti, sia per evitare la formazione di un monopolista nel campo della telefonia mobile. E così fra i costi di questa scalata bisogna anche mettere l’uscita dal controllo nazionale della società più dinamica degli anni Novanta.

CAMBI DI CONTROLLO SENZA OPA: BASTA CAMBIARE L’ETICHETTA

Telecom passa di mano con un’Opa, cioè con un’operazione di mercato, ma il controllo della nuova Telecom viene esercitato con le tradizionali armi del capitalismo italiano di relazioni: una bella catena di società a piramide. Bernabé lo aveva detto a chiare lettere ai dipendenti (nonché al governo): “Il passaggio di controllo di Telecom a valle dell’Opa può avvenire su una qualsiasi delle scatole a monte delle quali si esercita il controllo di Telecom”. (3) Un problema che Marcello Messori, in qualità di esperto di Palazzo Chigi, aveva tempestivamente sollevato, in un appunto riservato rimasto sempre senza risposta.
Detto e fatto. A fine luglio 2001, a pochi mesi dalla nuova vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, Marco Tronchetti Provera compra per 4,175 euro le azioni Telecom possedute da Bell (contro un prezzo di borsa di 2,25). E poiché c’è una piramide societaria bell’e pronta, basta acquisire Bell che controlla Olivetti con una quota inferiore al 30 per cento per disporre di Telecom senza bisogno di lanciare l’Opa.
Tronchetti annuncia di avere una visione industriale e di voler accorciare la catena di controllo e si guadagna la fiducia degli investitori (il mercato continua a detenere oltre due terzi delle azioni della società) anche perché la pur breve gestione Colaninno non era stata esente da operazioni assai controverse: basti citare la fusione Pagine gialle – Tin.it di cui è bene ricordare i tratti essenziali. Al momento dell’annuncio, primavera 2000, quindi punto più alto della bolla azionaria, la Seat arriva a capitalizzare in Borsa 72 miliardi, un valore superiore a quello di Eni ed Enel, destinati a scendere a 8 nel giro di un anno e mezzo. Eppure Colaninno impegna Telecom in un’operazione che costa alla società un deflusso di 6,7 miliardi di euro che, essendo transitato nel percorso Torino-Torino per il Lussemburgo (la linea della geografia del nuovo capitalismo non è precisamente retta), non ha lasciato nomi e cognomi dei destinatari finali. (4)
Quando arriva Tronchetti Provera, non solo Telecom è l’esatto contrario di quello che Prodi e Ciampi avevano sognato dal punto di vista del controllo societario, ma i suoi punti di forza sono in gran parte scomparsi, soprattutto dal punto di vista finanziario: i debitirappresentano ormai il doppio del patrimonio e peseranno come il piombo nelle ali del gruppo. Senza entrare nel merito delle vicende che non è possibile descrivere in questa sede, si può dire che il problema del debito è stato il principale vincolo della gestione dell’ultimo decennio e, combinandosi con una redditività di base fatalmente in declino, ha visto scendere continuamente la redditività di base.
Quello che conta è che il passaggio da un controllore all’altro avviene sempre attraverso le scatole cinesi, secondo la strada tracciata dai “capitani coraggiosi”: prima da Colaninno a Tronchetti (che compra a un alto prezzo nel 2001) e poi nel 2007 da Tronchetti alla solita cordata “di sistema” composta dalle solite banche affiancate, per la prima volta, da un partner industriale straniero: Teléfonica. La società ha bisogno come il pane di capitali freschi, ma i mezzi finanziari che si trovano servono solo a pagare i soci che abbandonano: Colaninno e i suoi amici (gli unici che guadagnano) nel 2001; Tronchetti nel 2007, i soci di Telco probabilmente domani.

IL GIGANTE DELLE TELECOMUNICAZIONI  HA I PIEDI DI ARGILLA. E NON È L’UNICO

Dunque, era tutto scritto nel libro di Oddo e Pons uscito oltre dieci anni fa. Quello che i due giornalisti non potevano immaginare era che i disegni industriali di Tronchetti prima e dei soci riuniti in Telco poi, non sarebbero mai stati realizzati per una serie di motivi che meritano un nuovo libro. Né sarebbero stati ascoltati gli inviti degli ultimi anni a rafforzare la base di capitale. L’effetto netto è stato un drammatico declino della redditività di quello che fu il gigante delle telecomunicazioni. Ma ancora una volta, va detto alle anime belle che oggi si stupiscono, che le cattive notizie sullo stato di salute di Telecom non sono una novità: il bilancio 2011 si è chiuso con una perdita di oltre 4 miliardi, destinata a essere seguita dalla perdita di 1,6 miliardi nel 2012.
Nel grafico che segue sono sintetizzati i principali indicatori della drammaticità della situazione e il declino dal 2007 in poi: il peso del capitale sul totale attivo rimane intorno al 30 per cento, ma solo perché è stato drasticamente ridotto il denominatore, dunque perché gli investimenti sono stati tenuti al minimo e sono state dismesse attività (il totale attivo diminuisce del 12 per cento nel periodo). Ma il fatto importante è che la redditività di base cala drammaticamente perché il vecchio business non può dare più i margini di una volta. Lacash cow ha esaurito il latte: in soli sei anni il rapporto fra margine netto (ebit = earnings before interest and taxes) e ricavi totali crolla dal 19 al 6,5 per cento. Ovviamente a questo punto, non ci sono più risorse per pagare gli interessi. Se nel 2007 questi ultimi (al netto dei proventi finanziari) assorbivano più di un terzo del margine, oggi non sono più sufficienti e portano il bilancio in rosso.

, della redazione “LaVoce.info”

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