Da Imre Nagy a Viktor Orbán. L’Ungheria e i conti col passato ribelle

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Viktor Orbán cammina al passo con la storia. Una rosa bianca sul marmo di una tomba rievoca il passato magiaro. Qui, a Budapest, da trent’anni riposano i resti mortali di Imre Nagy, il primo ministro della sollevazione ungherese contro i sovietici nel 1956. A rivolta sedata, questo leader comunista revisionista venne ucciso nello stesso anno dai fedeli alla linea, dettata all’epoca dal Partito comunista dell’Unione sovietica.

Ai tempi, la disciplina di Jal’ta dettava l’agenda delle superpotenze, e l’Ungheria era un membro del Patto di Varsavia. Quindi Mosca ebbe mano libera contro la ribellione come, solo pochi mesi prima, in Polonia, e nel 1953 nella Repubblica democratica tedesca. Al Cremlino sedeva Krushev, e aveva rivelato nel 1954 i crimini di Stalin, in occasione del ventesimo congresso del Pcus. Le parole e le critiche alle pratiche politiche del predecessore generarono in Ungheria un malinteso. I comunisti magiari credettero che Mosca finalmente avesse aperto le porte a una revisione dottrinaria del sistema, permettendo una sorta di via nazionale al socialismo.

Non fu una rivolta generazionale, ma lo sviluppo di un sistema che guardava al modello Jugoslavo di via nazionale al socialismo, rompendo la logica dei blocchi, insomma una sorta di sovranismo ante-litteram.

Ma non v’era ancora l’intenzione di gettare alle ortiche Marx, Engels né tantomeno Lenin.

Trentatré anni dopo, già in un clima di tutti a casa, il partito comunista ungherese permise l’inumazione pubblica della salma di Imre Nagy, pochi mesi prima che crollasse la cortina di ferro.

Nel 1989 toccò proprio alla generazione di Orbán archiviare i testi sacri del bolscevismo. Erano i figli di quei comunisti revisionisti e patriottici del 1956.

In quei momenti storici, Viktor Orbán era un giovane dissidente con una gran voglia di Europa.

L’Ungheria, per quanto socialista, era un paese che già godeva di una relativa libertà economica, proprio come conseguenza del socialismo light di Kadar, sonnacchioso guardiano della fedeltà a Mosca, ben conscio che dopo i fatti del 1956 la società ungherese avesse bisogno di uno sfogo a latere.

La questione della sovranità nazionale ha attraversato il crollo dei muri, la disgregazione dei valori marxisti, i sacrifici imposti dalle dottrine liberali per l’adesione all’Ue. Non tutto scorre, in politica. E proprio i giovani leoni come Orbán vedevano nell’Europa in costruzione un traguardo in cui realizzare la nazione magiara e detergere i suoi traumi storici. La storia spesso sa anche essere ironica.

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