Usa, Trump: l’economia si conferma su binari positivi in questo primo biennio

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Di positivo, per il presidente statunitense Donald Trump, c’è che la sua popolarità è al massimo dall’inizio del suo mandato alla Casa Bianca. E, soprattutto, che nonostante tutte le vicissitudini che lo hanno visto protagonista in questi primi due anni di presidenza, ricopra ancora il ruolo per cui è stato designato. Infatti, a ben guardare, non sono poche le incognite che ha di fronte l’economia statunitense, tra tariffe di stampo protezionistico e timori sulla tenuta del ciclo positivo.

Se l’economia statunitense si conferma su binari positivi, è bene metterlo in chiaro, non è per merito di Trump, ma dei suoi predecessori. L’annuncio del piano fiscale ha indotto diverse società del comparto Corporate America ad avere un atteggiamento prudente. Infatti, la riforma principe di Trump sta avendo effetti singolari, perfettamente razionali da un punto di vista economico. Vale a dire che, data l’incertezza complessiva sull’effettiva messa in campo degli sgravi fiscali, le imprese stanno procrastinando gli investimenti. In sostanza, attendono di poter usufruire di tal vantaggio. E dire che la congiuntura sarebbe positiva per gli investimenti. Il PIL è cresciuto del 4.2% nel secondo trimestre dell’anno in corso, l’inflazione si è attestata al 2.3% a fine settembre, e il tasso di disoccupazione è stato del 3.7 per cento. Numeri che erano uno degli obiettivi del presidente Barack Obama, e che si sono materializzati sotto l’amministrazione Trump, anche alla luce di un’espansione di Wall Street con pochi altri precedenti nella storia americana dal Secondo dopoguerra a oggi.

Secondo molti, tuttavia, il ciclo economico statunitense è destinato a cambiare in fretta la sua direzione. Come Ken Orchard, portfolio manager di T. Rowe Price, una delle principali società finanziarie americane. “L’era delle sovraperformance dell’economia USA rispetto all’Eurozona sta per finire? Alcuni segnali indicano di sì. Molti degli indici che misurano le sorprese in termini di dati rispetto alle previsioni ora segnalano punteggi inferiori per gli Stati Uniti rispetto all’Eurozona, per la prima volta dall’inizio dell’anno, implicando quindi un peggiore outlook di consensus per l’economia statunitense rispetto a quello europeo”, spiegava poche settimane fa. E per molti aspetti questo fenomeno è legato alle scelte di politica economica di Trump e del suo segretario del Tesoro, Steven Mnuchin, uno dei pochissimi sopravvissuti alle purghe del presidente lungo questi primi due anni di presenza alla Casa Bianca.

Uno dei maggiori indiziati è il neoprotezionismo di “America First”, il mantra di Trump nel settore commerciale. Il deterioramento dei rapporti con la Cina, ma anche con il Canada, era nell’aria, e l’ex capo del National economic council (NEC), Gary Cohn, poi sostituito con Larry Kudlow, aveva messo in guardia Trump. Tuttavia, il magnate newyorkese ha deciso di andare avanti con la politica di dazi e imposte doganali al fine di sfavorire l’importazione dentro i confini statunitensi di merci più competitive e meno costose. Ma quello che non aveva calcolato è che non tutte le imprese americane possono permettersi di alzare il costo della produzione senza incidere sul prezzo finale per il consumatore. La conseguenza, spiegava la banca newyorkese, è che le tariffe imposte da Trump, nell’arco di 12 o 18 mesi dall’introduzione dei dazi, si trasferiranno in modo diretto sui cittadini. Vale a dire, prezzo al consumo più alto e riduzione della domanda domestica. E non è un caso che per controbilanciare questa esternalità, lo stesso Kudlow ha suggerito a Trump, proprio la scorsa settimana, di avviare gli studi per un nuovo, e più massiccio, taglio delle imposte per le imprese.

L’impatto delle misure economiche di Trump si sta facendo sentire anche sulle società quotate a Wall Street. I conti societari – siamo nelle settimane delle trimestrali di bilancio – sono positivi per la maggior parte delle imprese, sia del comparto bancario sia di quello manifatturiero sia di quello medicale, così come quello dei servizi del terziario. Ma non sembra attenuarsi la correzione dei corsi azionari, alla luce della posizione delle politiche economiche dell’esecutivo Trump. Non è dunque una coincidenza che nella settimana del 21 ottobre, e più precisamente nella seduta di mercoledì 24 ottobre, i maggiori indici di Wall Street (S&P500 e Dow Jones, con il Nasdaq vicino alla negatività year-to-dateabbiano annullato i guadagni dell’intero 2018, sull’onda delle preoccupazioni riguardo alla prossima recessione.

Recessione che potrebbe arrivare, ancora una volta, da uno shock interno. Se nel 2006 furono i mutui subprime a far paura al mondo intero, a questo giro ci sono almeno tre settori, secondo il consensus delle banche d’affari americane, che stanno sobbollendo. Primo, le società legate ai social media, come Facebook, Google e Twitter, le cui quotazioni sono considerate da molti analisti irrealistiche. Secondo, i prestiti agli studenti che, complice l’incredibile mole di liquidità erogata dalla Federal reserve, la banca centrale americana, per far fronte al collasso di Lehman Brothers il 15 settembre 2008, hanno visto un’impennata di sottoscrizioni, a fronte di un sistema educativo sempre più costoso e meno inclusivo. Terzo, i prestiti al consumo. Per la stessa ragione, gli economisti della Fed stanno monitorando due comparti in particolare: autovetture e, di nuovo, mercato immobiliare. Ed ecco spiegato perché la Fed sta cercando di rallentare l’espansione del credito incondizionato tramite l’innalzamento, graduale ma costante, del tasso d’interesse di riferimento.

C’è però un capitolo ancora più spinoso che rischia di fare perdere credibilità all’economia statunitense. Si tratta dello scontro fra Casa Bianca e Federal Reserve. Ben più di una volta Trump aveva attaccato il precedente governatore della Fed, Janet Yellen, accusandola anche alla vigilia della scorsa tornata elettorale di mantenere i tassi bassi al fine di favorire il ciclo economico e quindi il candidato democratico Hillary Clinton, che avrebbe rappresentato una certa continuità con Barack Obama. Poi, Trump è stato in silenzio per mesi, gli stessi in cui l’economia statunitense continuava a macinare record positivi sia a livello di sviluppo sia a livello di occupazione. Ma quando vi sono stati i primi scricchiolii, poche settimane fa, gli attacchi sono ripresi a spron battuto. Un esempio? Il 10 ottobre scorso ha pubblicamente affermato che “la Fed è impazzita”, parlando dell’operato di Jerome Powell, il successore della Yellen scelto dallo stesso Trump. In realtà, la traduzione italiana è fuorviante, poiché il presidente ha utilizzato le parole “The Fed is going loco“, con un non troppo implicito riferimento razzista verso le minoranze ispaniche. E mai nella storia recente della Fed si era osservato un attacco così spinto verso la banca centrale, che per antonomasia era, è e deve restare indipendente dalla Casa bianca. Ora però la musica è cambiata e, sebbene vi sia l’impressione che dopo le elezioni di midterm, i rapporti fra Trump e Powell torneranno più o meno normali, i segnali dati dal presidente non sono piaciuti ai mercati finanziari. Mercati che non attenderanno molto a voltare le spalle agli USA una volta finito il ciclo positivo, per cercare rendimenti finanziari altrove, come in Europa, o nei Paesi emergenti.

Il gioco politico di Trump, fra proclami di protezionismo e attacchi all’indipendenza della Fed, è un gioco pericoloso. Perché se da un lato alimenta la rabbia dei suoi elettori e sostiene il suo consenso elettorale, dall’altro lo sta isolando dalle altre economie mondiali, che si stanno rendendo più indipendenti dagli USA rispetto a quanto non lo erano sotto le ultime due presidenze americane. Trump è dato come vincitore delle elezioni di midterm, e se l’economia domestica continuerà su questi livelli, anche delle elezioni 2020, complice l’assenza – per ora – di validi avversari. Ma il condizionale è d’obbligo, perché se effettivamente il ciclo economico dovesse virare in negativo, l’assetto di politica commerciale costruito da Trump in questi 24 mesi si rivelerà un boomerang capace di distruggere tutta la dialettica pro-USA vista finora. E a soffrirne le conseguenze non saranno solo gli Stati Uniti, bensì l’intera economia mondiale.

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