A 84 anni muore Giampaolo Pansa

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Lo trattavano da sopravvissuto, ma adesso che Giampa è morto, Giampa ritorna finalmente a vivere. E finalmente ci metteremo a studiare quegli articoli che lanciavano grandi sguardi sugli avvenimenti indugiando su minuzie descrittive sempre condite dall’aneddoto e spesso dalla malignità: la Balena Bianca, il Coniglio Mannaro, l’epica delle truppe mastellate all’assalto dei congressi. Armato di penna e di binocolo per rubare un’espressione, una smorfia, un fastidio. Il Pci era l’elefante rosso, e nella sede della Dc scoprì il tavolo che il corto Fanfani aveva fatto segare. E poi gli onorevoli Cazzetti e Cazzettini, ma anche il canto dell’Internazionale che nell’aula bunker divenne uno sghignazzo, le facce dei morti ammazzati, la ferocia dei terroristi che si trasformò in miseria e pena quando li rincontrò come ex terroristi, con tutte quelle sanguinarie dall’aria mansueta. E poi le interviste, i ritratti: Berlinguer, Romiti, Lama, Andreotti, Craxi, Berlusconi, D’Alema… È l’opera che illumina tutta la vita di Giampaolo, anche i suoi errori, l’ossessione di celebrare Salò e le vittime dell’antifascismo: «ho descritto tante Italie. Mi sono inoltrato su terreni che nessuno voleva esplorare, come la guerra civile e il sangue dei vinti». Pansa diceva di dovere a Fenoglio il passaggio da sinistra a destra, dalla tesi di laurea sulla Resistenza concordata con Alessandro Galante Garrone ai libri appunto su Salò che tanto hanno venduto e che lo hanno gettato in quella rissa culturale che confessava di amare per istinto: «non mi piace ubbidire perché non mi piace comandare». E la sua prosa, la sua passione, la sua libertà cocciuta facevano dimenticare tutto il resto, si faceva perdonare con una metafora, con due aggettivi: «Una giornata di sole asciuga tutti i bucati» si dice a Casale Monferrato, dove era nato. E tutto finiva e ricominciava nella sua risata da munfrin , che sono gli omoni di schiatta contadina, picareschi e spavaldi descritti da Fenoglio che non fu solo il poeta delle Langhe.
Davvero è morto, in quella clinica dov’era ricoverato da un mese e dove continuava a scrivere, il rompiscatole del giornalismo italiano, il cronista più bravo, il campione della passione e del risentimento, con noi e contro di noi, con Repubblica e contro Repubblica , con la sinistra e poi con la destra ma sempre restando se stesso, maestro della scrittura come risarcimento, del colpo di penna come colpo di spada.
Aveva accanto Adele, la donna che più ha amato, la compagna che era anche la sua coscienza, grazie a lei e alla scrittura riuscì a sopravvivere alla morte, a soli 55 anni, del figlio Alessandro, un capitano d’industria stimatissimo, alla Feltrinelli, a Finmeccanica, al Credito italiano, banchiere d’affari…, il contrario del padre che nei numeri si perdeva, un macigno per il vecchio Giampa che sembrava destinato a una morte felice: «Come posso credere a un Padreterno che ha preso lui anziché prendere me».
Monferrino timido e ribelle, Giampa aveva il coraggio e la modestia di quella piccola specialissima patria piemontese, il complesso di inferiorità della provincia che è la cuccia di tutti i grandi italiani. Anche da vecchio scriveva ancora per il papà Ernesto, operaio del telegrafi, per la mamma Giovanna che non leggeva i suoi articoli, per la nonna Caterina, contadina analfabeta «che non aveva altra terra se non quella dei vasi da fiori», la nonna che perse il marito — Giovanni — nei campi, poi perse un figlio — Paolo — che cadde da un’impalcatura. Ed è a loro che fu dedicato il ragazzo: Giovanni e Paolo, Giampaolo.
C’era la foga del malessere come risorsa persino nel suo famoso stile che è diventato una scuola. Sferzante e imprevedibile, ogni tanto si faceva spericolato, come sempre è accaduto ai grandi giornalisti impressionisti che si possono permettere anche la libertà di inventarsi un Kant fatalista di provincia: «Fai quel che devi e avvenga quel che può» si inventò un giorno.
Pansa era fatto così, concentrava in sé tutto il bene e il male di un mestiere che si sta inesorabilmente rovinando, la velocità di scrittura, la fantasia delle citazioni, la memoria e l’amore per la battuta. Riassumeva se stesso così: «Tutto ciò che resterà della mia vita è quello che ho scritto». E tutti sapevano che avrebbe scritto pure sui muri, sempre funambolico, la vita come spettacolo — «Scrivo da un paese che non esiste più» fu l’incipit dal Vajont — e quell’attenzione dolce per il dolore che è un’altra delle lezioni più belle di Fenoglio.
Senza concessioni alla moda detestabile del maschio femminista e senza i compiacimenti generazionali per la malafemmina, Pansa è anche la straordinaria storia d’amore con la signora Adele Grisendi: «non ero io che decisi di guardarla, ma era lei che mi obbligò a farlo».
Non voglio essere reticente: indimenticabili sono state le cattiverie polemiche che scrisse su Ezio Mauro, Carlo De Benedetti ed Eugenio Scalfari perché sino alla fine Repubblica gli tornava in gola. Erano fratelli e si guastarono, dove guastarsi è un’altra maniera di vivere insieme, senza mai perdersi di vista. Come ha detto Scalfari i grandi protagonisti delle polemiche del tempo, quando passa quel tempo, non hanno conti da saldare.
Rimangono gli stili e i dettagli di vita come contributi alla biografia del giornalismo italiano della carta stampata, alla struggente bellezza di una professione morente che ha premiato Pansa sino a eleggerlo maestro.
Francesco Merlo, “La Repubblica”

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