Macerata, realtà à la carte

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La rete rimanda molte giustificazioni per lo sparatore di Macerata. Le narrazioni autoassolutorie non sono un fenomeno nuovo. La novità è che possono diventare virali grazie ai social media. Le conseguenze sulle nostre democrazie sono tutte da esplorare.

Chi giustifica una storia terribile
Alcuni giorni fa, a Macerata, Luca Traini ha sparato a quelli che, secondo lui, erano spacciatori nigeriani. Il suo gesto ha avuto un’enorme eco mediatica. Ha destato molto stupore anche il supporto che l’azione ha avuto sui social media e tra alcune forze politiche. Perché degli individui, specie se figure pubbliche, dovrebbero rendere pubblico il loro supporto o la loro comprensione per un reato odioso quale il ferimento di persone prese di mira per il colore della pelle?
In questa vicenda giocano un ruolo importante quelle che possiamo definire narrazioni (“narrative” in inglese). Ad esempio, chi ha giustificato il gesto di Luca Traini lo ha fatto usando argomenti quali l’esasperazione derivante dall’eccessiva presenza di immigrati in Italia o dal fatto che alcuni di loro siano implicati in attività illegali come lo sfruttamento della prostituzione o il traffico di droga.
Un recente lavoro di Armin Falk e Jean Tirole ci aiuta a capire il ruolo delle narrazioni. Sono definite come storie o descrizioni che raccontiamo a noi stessi o agli altri per interpretare la realtà in modo da poter scegliere azioni immorali, preservando al contempo una buona immagine di noi stessi. Tali storie non sono necessariamente vere, ma è sufficiente che abbiano una parvenza di verità. In altre parole, le narrazioni sono delle interpretazioni della realtà che consentono una valutazione positiva, dal punto di vista degli standard morali, di azioni che invece li violano.
Falk e Tirole danno alcuni esempi di narrazioni usate di frequente. Un primo tipo agisce cercando di sminuire il danno inflitto a qualcuno dicendo che la vittima, a sua volta, ha commesso azioni condannabili, o che l’atto di violenza è in realtà una forma di autodifesa oppure accusando la vittima stessa di qualche tipo di cospirazione. Un secondo tipo di narrazione consiste nel respingere le proprie responsabilità sostenendo di non essere decisivi, ovvero che l’azione immorale intrapresa sarebbe adottata eventualmente da qualcun altro o che era prescritta all’interno di una struttura gerarchica (“Ho eseguito gli ordini”, è stata la giustificazione di molte guardie dei campi di sterminio nazista).

La condivisione di fatti non veri
Le narrazioni, mostrano i due economisti, tendono a essere condivise: se un soggetto ha scelto un’azione riprovevole, ma possiede una narrazione che ne minimizza l’impatto, ha l’incentivo a diffonderla, così da migliorare la sua reputazione presso gli altri. Se penso che una mia azione o l’espressione di un mio pensiero possa essere interpretata come razzista, ad esempio, ho un forte stimolo a diffondere una narrazione che li faccia apparire in una luce diversa, a me più favorevole. La mia narrazione è utile ad altri che la possono usare a loro volta a proprio favore. In questo modo le narrazioni possono diventare virali, come si è visto anche dopo i fatti di Macerata.
Tuttavia, le narrazioni sono spesso basate su fatti non veri o solo parzialmente veri. Se gli individui che le usano fossero meglio informati, diventerebbe più difficile usarle in modo autoassolutorio. Ma la verifica delle notizie è spesso costosa in termini di tempo e non tutti possono farla, specialmente quando i problemi sono molto complessi e non si prestano a letture univoche. L’espressione “fatti alternativi”, coniata da una dei consiglieri del presidente americano Trump, fa capire bene quale sia il problema.
Dal punto di vista individuale può essere addirittura meglio non cercare di approfondire i fatti, per paura che siano in contrasto con il nostro desiderio di giustificazione.
Il debunking, cioè lo smontare notizie false, può avere un ruolo importante e i mezzi di informazione hanno ovviamente il ruolo naturale di debunker. Tuttavia, la loro efficacia non deve essere sopravvalutata. La presenza sempre più rilevante di comunità “chiuse”, che traggono le loro informazioni dai social media o solo da alcune fonti selezionate per contiguità ideologica, limita l’efficacia del fact-checking. Il desiderio di vedere confermate le proprie opinioni può prevalere su quello di acquisire nuove informazioni o approfondire punti di vista diversi.
Le narrazioni autoassolutorie non sono certo un fenomeno nuovo. Quello che è nuovo è il loro poter diventare virali grazie ai social media. Le conseguenze di tale intreccio sulle nostre democrazie sono ancora tutte da esplorare. [da http://www.lavoce.info]

Fausto Panunzi

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