Le banche italiane? Stanno meglio, non benissimo

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Rapporto della Banca d’Italia
Dopo un periodo turbolento, segnato dai salvataggi di alcune banche (Monte Paschi Siena, due popolari venete, tre casse romagnole) e dal polverone sollevato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta, può essere utile domandarsi: come sta il sistema bancario italiano? È più solido? Nel provare a rispondere, ci viene in aiuto il Rapporto sulla stabilità finanziaria, pubblicato dalla Banca d’Italia alla fine di aprile. Il rapporto sottolinea i progressi fatti dalle banche italiane sul fronte della solidità: incremento del patrimonio, cessione di “sofferenze” (prestiti a soggetti insolventi), riduzione della esposizione al rischio sovrano (titoli pubblici domestici). La Banca d’Italia non nasconde i punti di debolezza delle banche nostrane: la redditività ancora bassa; ma soprattutto le forti differenze tra un istituto e l’altro, ragion per cui i dati medi possono nascondere il permanere di situazioni critiche. Ai numeri del rapporto occorre tuttavia aggiungere qualche informazione relativa al confronto internazionale: è da qui che arrivano le notizie più sgradevoli.

Punti di forza: patrimonio e liquidità
Le banche italiane hanno proseguito nello sforzo di aumentare la loro base patrimoniale, attraverso diversi aumenti di capitale. Nel 2017 il rapporto tra il capitale di migliore qualità e l’attivo ponderato per il rischio (Cet1 ratio) è mediamente aumentato, collocandosi a fine anno al 13,8 per cento e riducendo il divario rispetto alle concorrenti europee. Forse ancora più importante è il fatto che il rapporto tra capitale e attivo non ponderato per il rischio (leverage ratio) è superiore alla media europea (6 per cento contro 5,5 per cento): questo è un indicatore più trasparente e meno manipolabile del Cet1 ratio.
Sul fronte della liquidità la situazione appare tranquilla. L’espansione dei depositi assicura una fonte di finanziamento stabile alle nostre banche. L’indicatore di liquidità (liquidity coverage ratio) è ampiamente superiore al minimo previsto dalle regole prudenziali: 171 per cento contro 100 per cento.

Punti di debolezza: Npl, titoli pubblici, redditività
Le banche italiane hanno ereditato dalla crisi economica degli scorsi anni una mole di prestiti deteriorati (non performing loans – Npl) che ha rappresentato la maggiore fonte di preoccupazione per tutto il sistema e ha generato alcuni dissesti. Nel corso del 2017, le operazioni di cessione hanno consentito di alleggerire il fardello di ben 40 miliardi e altre sono state avviate quest’anno. Ciò non toglie che i crediti deteriorati lordi siano ancora 285 miliardi, pari al 14,5 per cento dei crediti verso la clientela. Va detto che il dato si dimezza se si tengono in conto le svalutazioni già fatte nei bilanci bancari: i crediti deteriorati netti sono pari al 7,5 per cento del totale. Tuttavia, si tratta di un dato medio: la Banca d’Italia sottolinea che nasconde forti differenze tra le banche, alcune delle quali presentano valori ben più alti. Ma quello che più ci penalizza è il confronto internazionale: qui ci viene in aiuto un Rapporto della Commissione UE, dal quale risulta che il rapporto tra crediti deteriorati e totali, nel nostro paese, è ancora il triplo della media europea. Il divario rappresenta un tallone d’Achille formidabile per l’Italia nelle trattative internazionali, relative alle regole prudenziali e al completamento della Unione bancaria.
Un altro punto dolente delle nostre banche è la loro esposizione al cosiddetto “rischio sovrano”, derivante dalla detenzione di titoli pubblici domestici. Il rapporto della Banca d’Italia ci dà una notizia confortante: l’ammontare complessivo di questi titoli si è ridotto al di sotto dei 300 miliardi, pari all’8,5 per cento del totale attivo del sistema (il picco raggiunto tre anni fa era oltre i 400 miliardi, superiore al 10 per cento del totale attivo). Tuttavia, usando i dati della Bce è possibile calcolare che il sistema bancario italiano è tuttora quello che, tra i paesi della zona euro, ha la maggiore concentrazione del rischio verso il Tesoro nazionale: più che doppia rispetto alla media europea (3,5 per cento). Anche su questo fronte, il nostro paese è quello più esposto ai contraccolpi di eventuali misure restrittive, di cui si sta discutendo in Europa, che potrebbero introdurre limiti al portafoglio-titoli o imporre requisiti di capitale aggiuntivi per la detenzione di titoli pubblici.
Ma il principale fattore di rischio, per la Banca d’Italia, è la bassa redditività delle nostre banche. Pur con i miglioramenti fatti nel 2017, grazie alle minori rettifiche su crediti deteriorati e alle commissioni sul risparmio gestito, il return on equity (Roe) resta inferiore al costo del capitale di rischio: 7 per cento contro 9 per cento. Sotto questo profilo, però, non stiamo peggio degli altri. Anzi, le banche che hanno i risultati meno favorevoli nel confronto internazionale (almeno per quanto riguarda gli istituti quotati in borsa) sono quelle tedesche: magra consolazione.

Angelo Baglioni (da “lavoce.info”)

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