Via le cartelle da mille euro, ma i problemi restano

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Modifiche marginali al decreto

È fresco di approvazione – e appena entrato in vigore – il tanto discusso decreto di legge fiscale. Rispetto alla versione originaria, le modifiche principali consistono nell’impossibilità di includere tra le basi imponibili che si possono far emergere con la dichiarazione integrativa speciale quelle riferite ad attività finanziarie e immobili detenuti all’estero. Da un punto di vista tecnico ed etico, si tratta di un cambiamento positivo, ma del tutto marginale. Non cambia, infatti, la natura condonistica dei provvedimenti varati, che nel loro insieme offrono al contribuente potenzialmente evasore molte vie di fuga dal procedimento ordinario. E non viene meno, d’altronde,il paradosso di un condono ampio ma che, presumibilmente, fornirà un maggior gettito immediato di poco conto, aumentando la propensione all’evasione nel medio periodo.

Cosa succede ai debiti fino a mille euro

Un’attenzione particolare merita l’articolo 4 del decreto: prevede che entro fine anno siano annullati i debiti di ammontare fino a mille euro affidati agli agenti della riscossione tra il 2000 e il 2010. Con queste caratteristiche, il provvedimento appare del tutto simile all’articolo 1, comma 527 della legge 24 dicembre 2012, n. 228 – la legge di stabilità per il 2013 – che prevedeva un limite più elevato per l’annullamento (duemila euro). Si dovrebbe trattare principalmente di debiti locali, quali le multe automobilistiche e i bolli auto.
Il provvedimento ha evidentemente l’obiettivo di ridurre almeno in parte l’enorme carico di debiti fiscali affidato agli agenti della riscossione e, in primo luogo, all’Agenzia delle entrate-Riscossione, ex Equitalia. L’esigenza di “intervenire per risolvere la questione dei debiti insoluti dei contribuenti verso la pubblica amministrazione” era stata effettivamente inserito nel contratto di governo. Secondo quanto testimoniato dall’ormai ex-direttore dell’Agenzia delle entrate Ernesto Maria Ruffini in un’audizione alla Camera dei deputati del 4 luglio, il valore contabile residuo dei crediti affidati dagli enti creditori tra il 2000 e il 2017 è complessivamente pari a 871 miliardi di euro (riferibili a più di venti milioni di contribuenti). Il 55,1 per cento di questi contribuenti ha debiti residui inferiori a mille euro, ma complessivamente valgono solo l’1,9 per cento del debito residuo non riscosso.

L’annullamento di debiti di piccola entità ha un costo per la collettività, stimato in 524 milioni di euro nella relazione tecnica alla bozza del decreto, però potrebbe portare un beneficio, come ha sostenuto ad esempio dal sottosegretario Massimo Bitonci, in termini di minori costi amministrativi per l’Agenzia delle entrate-Riscossione. È una prospettiva plausibile?

È la strada giusta?

È passato più di un anno da quando Equitalia, da società privata sotto il controllo pubblico qual era, è diventata un ente pubblico economico strumentale all’Agenzia delle entrate. L’accorpamento delle funzioni di accertamento tributario e riscossione ha permesso al fisco italiano di normalizzarsi rispetto al contesto internazionale, semplificandosi ed evitando potenzialmente dannose sovrapposizioni di ruoli in accordo con le raccomandazioni di Ocse e Fondo monetario internazionale.

Tra le ragioni della scarsa efficienza del nostro sistema di riscossione, l’Ocse individuava anche il fatto che i crediti inesigibili – ad esempio quelli per fallimento o per cessazione dell’attività che da soli valgono il 40 per cento dell’intero magazzino– non venissero sistematicamente stralciati. Da questo punto di vista, quindi, il provvedimento pare andare nella direzione giusta, eliminando crediti di piccolo importo ancora esistenti dopo molti anni.
Del resto, sono proprio i carichi tra il 2000 e il 2013 a contribuire per quasi 600 miliardi al carico contabile residuo.

Tuttavia, la domanda da farsi è se questo tipo di riduzione avrà effetti transitori o permanenti. Nei loro rapporti, le istituzioni internazionali mettevano in evidenza una molteplicità di ragioni della peculiare situazione italiana, tra cui: a) l’elevata evasione dovuta anche alla presenza di una pluralità di istituzioni coinvolte nell’azione di prevenzione e repressione dell’evasione, tra loro poco coordinate e senza coerenza strategica, con conseguente duplicazione di funzioni e scarsa condivisione di informazioni; b) una disciplina legislativa della riscossione obsoleta e macchinosa, con attività di riscossione indifferenziate per tutti i crediti iscritti a ruolo; c) l’impossibilità per gli enti riscossori di accedere alle informazioni dell’anagrafe dei conti correnti e dei rapporti patrimoniali, utilizzabile solo per effettuare accertamenti e non in fase di riscossione, e quindi di stabilire delle priorità tra i diversi debiti iscritti a ruolo; d) le limitazioni poste negli anni, attraverso alcune disposizioni legislative, alle attività di recupero di crediti fiscali. Tra queste – di particolare interesse vista la vulgata secondo cui la riscossione in Italia sarebbe particolarmente “feroce” – l’Ocse citava l’allungamento dei termini per il versamento delle somme e i piani di rateizzazione del debito decisamente generosi e raccomandava, tra l’altro, di “dotare la funzione di riscossione dei crediti tributari di adeguati poteri e riconsiderare, in particolare, le norme relative alle rateazioni”.

Nessuno dei precedenti quattro punti trova risposta nel decreto fiscale. Anzi, la nuova rottamazione delle cartelle prevista dall’articolo 3 dispone termini di rateazione del pagamento ancora più generosi del passato. Più in generale (nemmeno) il governo Conte sembra interessato a intraprendere le azioni necessarie, sul piano legislativo e amministrativo, per aggredire in modo sistematico il mare dei crediti fiscali inesigibili, di fronte al quale il “cucchiaino” dell’annullamento disposto dell’articolo 4 non potrà che avere effetti del tutto trascurabili.

Alessandro Santoro e Mario Lorenzo Janiri, da “La Voce.info”

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