Viaggio negli Stati Uniti del Mediterraneo

0
565

Stanco del lavoro e della vita che faceva, Simone Perotti da qualche tempo ha preso a inseguire il suo primo sogno: scrivere. E poi il secondo: navigare. Perciò sei anni fa ha imboccato il mare e lo ha ricucito in lungo e in largo, per oltre ventimila miglia, incontrando artisti e scrittori, migranti e perseguitati politici. Da qui sono nati una convinzione e un libro. Intanto il viaggio continua…

Forse nessuno ha mai fatto un viaggio come questo: oltre ventimila miglia a vela (la stessa distanza, circa, del giro del mondo all’equatore): sei anni — dal 2013 al 2019 — nel Mediterraneo, comprendendo il Mar Nero, l’Atlantico portoghese, spagnolo e marocchino.

Simone Perotti ha 54 anni. Nel 2001 ha deciso di lasciare la sua carriera da manager della comunicazione, con ottimo stipendio e casa nella milanese Brera, per diventare ciò che sentiva di essere: uno scrittore e un marinaio. Nel 2009, in Adesso basta, raccontò quel radicale cambio di vita. Il giorno dopo aver annunciato al proprietario dell’azienda, a Chicago, che avrebbe lasciato («ero stanco, di una stanchezza invincibile, fatta più di malinconia che di fatica, ma sono figlio di genovesi, per dirlo a mio padre ho rischiato di morire»), ancora con l’abito gessato indosso, entra nell’ufficio di una società di charter nautico a Marigot, nell’isola di Saint Martin, alle Antille: «Sono uno skipper… Avete bisogno?». Da allora non ha mai smesso di navigare.

Un forum sull’acqua

È il 12 ottobre 2019, Columbus Day: bermuda, piedi scalzi, collanine di conchiglie al collo, Simone Perotti guida l’approdo di Mediterranea (un ketch di sessanta piedi acquistato a Messolongi, in Grecia) nel molo di Levante, a Genova. È la conclusione (provvisoria) di questo viaggio che ha attraversato 20 Paesi in cui lo scrittore è passato dall’essere «libero da» all’essere «libero di». Un’esperienza unica che è stata al tempo stesso laboratorio sociologico, forum culturale, ricognizione ambientale. Sul molo lo accoglie una piccola folla di magliette blu e rosse, si stappano bottiglie, si mangia focaccia: sono alcune delle 450 persone che nel corso di questi anni hanno sostenuto il progetto e sono salite a bordo, in un’impresa che ora Perotti ha tradotto in un libro intitolato Rapsodia mediterranea. Lungo la rotta lui e i suoi hanno incontrato oltre settanta tra scrittori, artisti, attivisti della società civile, per confrontarsi su un’idea, forse visionaria, che si potrebbe definire con uno slogan: gli Stati Uniti del Mediterraneo: «Volevo andare a vedere, conoscere luoghi, luci, angolazioni, ascoltare le migliori idee. Qui sono nati i nostri valori, qui nasceranno le visioni e le soluzioni del presente e del futuro. Alcuni scrittori li abbiamo accolti a bordo, sono stati qui con noi, a questo tavolo. Altri, siamo andati a trovarli nei luoghi dove siamo sbarcati. È stato uno spigolare, un raccattare di qua e di là briciole di idee che messe insieme fanno questa pagnotta fumante del pensiero. Dal coro si è formata un’immagine del Mediterraneo e chissà quante altre teste, magari giovani e sconosciute, si potevano ancora trovare».

In mente Perotti ha l’energia di Abraham Yehoshua («forse questo incontro ha incrociato qualcosa già presente in lui, ora parla moltissimo del Mediterraneo unito, dell’identità mediterranea, della Sicilia come centro ideale»), l’umiltà di David Grossman (salito a bordo il giorno dopo l’amico Yehoshua), «la sua capacità visionaria, il non abbassare mai la guardia rispetto alla necessità di parlarsi, di comunicare, anche e soprattutto tra israeliani e palestinesi. Mi ha davvero ispirato. Un grande scrittore che è molto più lucido e concentrato sulle questioni di cui parla che sul suo essere scrittore, con una grande pulizia intellettuale. Ci ha detto che so

gnare è come gettare un’ancora nel futuro, aggrapparsi alla catena e tirarsi avanti. Un uomo di una grande dolcezza. Quando è salito a bordo, la prima cosa che mi ha chiesto è stata: “Come sta Bulli (soprannome di Yehoshua ndr)? Che cosa ha detto?”».

Scrivere, navigare, discutere

Rapsodia mediterranea ha un legame con Adesso basta perché a questo progetto hanno aderito molte persone che si sono trovate in un momento di cambiamento. «Io l’ho fatto non perché non ne potevo più del lavoro che facevo — mi piaceva e avevo successo — ma perché sentivo che non potevo non fare ciò che volevo fin da bambino: scrivere e navigare, passare il tempo in mare. Da un certo punto di vista sono stato fortunato: per me è stata una scelta obbligata, facile da capire. So che per altri non è così. Ho cominciato a scrivere prima ancora di leggere il primo libro, non vengo da una famiglia di intellettuali eppure battevo sulla Lettera 35 di mia sorella. A 9 anni ho scritto tre romanzi gialli che mio padre opportunamente ha buttato durante un trasloco».

Perotti è seduto al grande tavolo ovale che è punto di incontro, mensa, luogo di discussione. Sul tavolo le briciole della colazione appena consumata: «È stato straordinario trovare persone appassionate della vela e del dialogo, perché non c’è un minuto in cui qui non ci sia un gruppetto che affronta un tema, una discussione con profondità straordinaria e poi un minuto dopo con leggerezza, buttando tutto in caciara». A bordo c’è il marinaio Perotti (è uno dei comandanti, anzi dei rais), più che lo scrittore: «Anche perché per scrivere io ho bisogno di stare a casa, con i miei libri, la connessione, il silenzio. Qui mi segno appunti: ispirazioni, parole dette, descrizioni, impressioni. Ho anche un campionario umano straordinario». Si può dire che Rapsodia mediterranea sia un libro durato 35 anni in cui confluiscono il memoir, il romanzo filosofico, l’avventura, la rassegna di incontri, ripercorrendo pezzi storici o mitologici di navigazione. «Quella che ha fatto Marco Polo quando da Venezia è andato fino a Istanbul. O quella di Giasone che, con gli Argonauti, è partito dal nord dell’Egeo arrivando in Georgia e poi tornando verso il Danubio. O quella dei Romani quando, nel I secolo avanti Cristo, andavano in Kerala a prendere il pepe, in una delle più grandi epopee della storia della nautica di cui nessuno ci racconta nei sussidiari: novemila miglia per andare oltre l’isola di Socotra, smontando le navi perché non c’era Suez, e poi rimontandole più in là».

Perotti è grande appassionato di imprese nautiche: «Quella del Mediterraneo è una storia che, in fondo, pochi conoscono. È normale che in un Paese che ha settemila anni di storia nautica come l’Italia i nostri figli conoscano solo Jack Sparrow, un pirata inventato da una major americana? O che l’unico importante contributo a questo tipo di narrazione l’abbia dato Emilio Salgari, che io ho molto amato perché era una penna straordinaria, ma che si inventò il Corsaro nero nei Caraibi dove la pirateria è durata 140 anni? I nostri pirati sono vecchi di millenni che hanno visto protagonisti uomini le cui gesta venivano raccontate nelle calate, nei moli. Noi abbiamo avuto Andrea Doria, le Crociate sono nate con l’intento di fare pirateria. Anche Nino Bixio era un grande marinaio e quasi nessuno lo sa. Il Manlio, scritto da Giuseppe Garibaldi, è l’unico romanzo nautico della nostra letteratura. Enrico Alberto D’Albertis, di cui nessuno ricorda il nome, avventuriero, esploratore, ha fatto tre volte il giro del mondo in barca a vela; se fosse stato inglese sarebbe stato Livingstone. Da noi c’è stata una rimozione, non c’è una letteratura nautica. I Malavoglia? Il mare non c’è mai, se ne parla soltanto. Horcynus Orca? Neppure lì c’è, è come l’Ulisse di Joyce. Certo, abbiamo i primi sei libri dell’Eneide ma finiti quelli sembra che tutti abbiano dato retta a Ovidio quando dice: “Appena puoi fuggi il mare”».

Quel mare non esiste

Ci sono voluti sei anni in barca per capire che il Mediterraneo che Perotti aveva in mente in realtà non esiste. «Pensavo che lo avrei trovato nel melange di cultura francese, spagnola, magrebina. Che fosse quello del breviario di Predrag Matvejevic o di Fernand Braudel, invece il Mediterraneo contemporaneo è molto di più e molto di meno. Per secoli il mare nostrum ha elaborato i modelli dell’umanità: la filosofia, la politica sono nate qui. Poi, per qualche ragione — economica, bellica, politica — il Mediterraneo ha smesso di elaborare i propri modelli e siamo diventati follower di gente che sta altrove, la colonizzazione mediatica ha fatto il resto. Non ho trovato il Mediterraneo nelle grandi città, nei grandi porti che sono container di manager e logistica. L’ho trovato nelle isole piccole, residuali, rimaste collegate alla natura, dove si apre una voragine sul tempo, dove si può vivere in un modo diverso, fare cose che non abbiamo mai fatto. Non è una visione snobistica: il tempo, le relazioni, vivere di poco, non essere schiavi, fare vite semplici. Lì ho trovato qualcosa che serve a immaginare un nuovo modello, forse per una minoranza. Io non ho un euro ma riesco a fare tutto quello che voglio perché tutto quello che voglio è adatto a me».

Insomma Perotti pensa che occorra ripartire da dove ci siamo fermati. «Qual è il modello di vita che va bene per noi relativamente al tempo, ai rapporti, ai luoghi della vita, al cibo, al lavoro? È normale che abbiamo un modo di vivere non adatto ai cittadini che siamo? Non sarà che l’alienazione e l’incazzatura diffusa derivino anche da questo far finta di essere quello che non siamo? Tutti gli uomini del Mediterraneo che possiamo citare hanno costruito strade, non percorso quelle fatte da altri. Noi non possiamo ammirarli e poi agire diversamente. Questa voglia di andare oltre il consueto e oltre l’omologazione sembra estinta. I talenti ci sono, quello che manca è l’ambizione, parola che ci siamo fatti fregare da Berlusconi che l’ha trasformata in sinonimo di rampantismo».

Uomini e crisi

Il Mediterraneo che ha incontrato Perotti è anche quello successivo alle primavere arabe e dei migranti. «Ci sono stati momenti critici e scenari di guerra. In Siria, in Egitto, in Ucraina non siamo potuti andare. A Istanbul sentivamo che stava per succedere qualcosa. In piazza Taksim si sentiva una vibrazione, al Gezi Park appena uno alzava la voce aveva attorno poliziotti in borghese. Noi dovemmo cambiare rotta: eravamo lì davanti, ci avvicinò un gommone greco con gli incursori della Marina, motori silenziosi e passamontagna in volto. Abbiamo avuto a bordo intellettuali turchi come Burhan Sönmez, avvocato, difensore dei diritti dei curdi, arrestato e torturato, che per questo ora parla con un filo di voce; Buket Uzuner, scrittrice piena di verve, fiera oppositrice di Erdogan; Bedri Baykam, il più grande pittore t urco, at t i vi s t a del Gezi Park. Quando l’ho incontrato mi ha raccontato che una sera tornava da una manifestazione, l’ha avvicinato un sostenitore dell’Akp, il partito di Erdogan, gli ha chiesto se poteva portarlo a casa, lui ha capito subito che era una trappola e ha detto di no, allora quello ha tirato fuori un coltello tradizionale t urco e g l i ha a pe r to l a pancia: è vivo per miracolo. Eppure mi ha gelato quando ha detto: adesso che cosa dovrei fare io? Non posso che andare avanti. A Nermin Mollaoglu, la più grande agente letteraria del Paese, che ha 250 scrittori sotto contratto, ho chiesto della censura. Mi ha risposto: non c’è, perché qui c’è l’autocensura, la legge 301 che permette a qualunque lettore che si senta urtato per qualcosa che ha letto di citare un autore di fronte alla Corte di giustizia. Io mi sono chiesto: che tipo di scrittore sarei a quelle condizioni?».

La crisi dei migranti per Perotti e Mediterranea ha avuto il colore arancione dei giubbetti di salvataggio trovati a centinaia in acqua o nelle baie di Levante: «Una volta, tra Izmir e Lesbos ero in piedi sulla barca e ho visto arrivare questo barchino con a bordo uomini che sembravano dei cartonati, immobili, con i remi giù, sfiniti. Non avevano neppure la forza di stendere una mano per afferrare la cima che gli abbiamo lanciato. Sono stati i miei eroi del giorno: giovani, pachistani, mai visto il mare, avevano deciso di non mettersi nelle mani degli scafisti, ma di comprare una barca, un motore, questo ignominioso kit del migrante che i turchi mettono in vendita in ogni negozio, e partire. A Leros abbiamo incontrato tre sorelle. Bellissime, sembravano principesse con i loro abiti poveri, tradizionali. Ci hanno fatto vedere sul telefonino un mig che passava a pochissimi metri da casa loro in un boato infernale. La sera stessa partono, con il padre, il nonno, e la mattina dopo radono al suolo il villaggio. Ridevano raccontandolo. Ho chiesto: ma perché ridete? Mi hanno detto: perché stasera non sappiamo dove dormiremo, ma siamo in Europa, siamo salve». (da Corriere della Sera 27 Oct 2019Di C. TAGLIETTI, A. VANOLI, V. TRIONE e S. PERFETTI)

Articolo precedenteIl governo ha investito 60 milioni sulle terapie anticancro CAR-T
Prossimo articoloIsis, media Usa: “Al-Baghdadi morto in un raid”

Lascia un commento

Please enter your comment!
Please enter your name here