Perché ArcelorMittal vuole lasciare l’Ilva

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Scudo legale e recesso

Il 16 giugno 2019 ArcelorMittal Italia spa (la nuova società costituita per gestire l’ex Ilva) aveva dichiarato: “se il decreto dovesse essere approvato nella sua formulazione attuale, la disposizione relativa allo stabilimento di Taranto pregiudicherebbe, per chiunque, ArcelorMittal compresa, la capacità di gestire l’impianto nel mentre si attua il Piano ambientale richiesto dal governo italiano”. Il cosiddetto scudo legale, l’immunità penale per l’acquirente, è da sempre considerata un elemento essenziale per il mantenimento degli accordi presi. Solo l’emanazione del “decreto imprese” aveva evitato che il recesso potesse arrivare già alla fine delle ferie estive. Poi, ed è notizia degli ultimi giorni, “con effetto dal 3 novembre 2019, il Parlamento italiano ha eliminato la protezione legale necessaria alla società per attuare il suo piano ambientale senza il rischio di responsabilità penale, giustificando così la comunicazione di recesso”.
Secondo ArcelorMittal, la comunicazione di recesso è giustificata dalla revoca dello scudo legale. Spetterà ai tribunali verificare se sussistono le ragioni per recedere, prolungando la fase di incertezza che avvolge il complesso industriale dell’ex Ilva e le vite degli oltre diecimila dipendenti.
Una fase di incertezza che si inserisce in un momento molto delicato per il settore dell’acciaio in generale dunque anche per la stessa multinazionale. Sono infatti lontane, non tanto temporalmente ma in termini di risultati, le ragioni che giustificarono la partecipazione alla gara per l’acquisizione dell’ex Ilva. Nel 2017 il gruppo ArcelorMittal, primo produttore al mondo ed europeo di acciaio, veniva da un anno di quasi completa utilizzazione degli impianti europei. La fase di ristrutturazione (che aveva richiesto tre aumenti di capitale per complessivi 9,5 miliardi di euro) poteva essere considerata completata e il piano strategico Action 2020 procedeva spedito. In quest’ottica, l’acquisizione della principale acciaieria italiana ed europea veniva considerata come un’opportunità per realizzare economie di scala (circa 300 milioni di euro), diffusione di un know-how aziendale evoluto verso una realtà che da anni mancava di investimenti e penetrazione nel mercato italiano dell’acciaio, secondo mercato europeo, del quale Arcelor Mittal copriva ancora una quota limitata. L’amministratore delegato di ArcelorMittal Europe Flat SA ipotizzava che in soli tre anni sarebbero stati in grado di raggiungere il pareggio di bilancio.

I risultati però non stanno andando come ipotizzato. E non solo a livello italiano.

Con il prezzo dell’acciaio che è diminuito di oltre il 10 per cento, il calo del fatturato è stato contenuto grazie a un aumento del 10,1 per cento del volume della produzione e delle vendite, determinato, in buona parte, dall’acquisizione del complesso dell’ex Ilva. Ma i margini sono crollati. Escludendo gli accantonamenti per 497 milioni di dollari, il reddito operativo si riduce a 207 milioni dai 1.433 del giugno 2018. L’Europa contribuisce per circa il 50 per cento del fatturato del gruppo e per circa il 40 per cento del reddito operativo, e così i risultati per l’intero anno non promettono niente di buono. Lo stesso gruppo ArcelorMittal non ne fa certo mistero.
Nel primo bilancio diffuso dalla filiale italiana si può leggere, a pagina 26 della nota integrativa, che “la domanda di acciaio nella Ue è debole in tutti i principali settori, in particolare il settore automobilistico registra un calo del 10 per cento. Nonostante ciò, le importazioni di acciaio in Europa continuano a crescere soprattutto a causa della sovracapacità produttiva globale e delle misure protezionistiche degli Stati Uniti che hanno dirottato i flussi commerciali verso l’Europa. In particolare, le importazioni dei laminati a caldo nella Ue sono aumentate del 37 per cento dal 2017 e del 16 per cento rispetto all’anno scorso e risultano ancora in crescita. In Italia, le importazioni dalla Turchia di tale prodotto sono aumentate del 49 per cento dal 2018”.
Come se non bastassero la contrazione della domanda, le pressioni competitive delle importazioni e il rialzo dei prezzi delle materie prime, in poco più di un anno il costo delle quote Ue sulle emissioni di CO2 è cresciuto del 230 per cento, imponendo a carico dei soli produttori europei un onere ulteriore di 45 euro per tonnellata.
In questo difficile contesto l’indebitamento netto (debito lordo detratto delle disponibilità liquide) del gruppo non sta più scendendo. A giugno 2019 è rimasto costante rispetto alla fine del 2018, 10,2 miliardi di dollari, ancora lontano da quel livello di 7 miliardi che era indicato nel piano Action 2020. È inoltre da ricordare come sull’indebitamento da 5,5 miliardi di tipo revolving, con scadenza 2023, Arcelor Mittal si sia impegnata a non oltrepassare il rapporto di 4,25 tra indebitamento netto e Ebitda. Sebbene il margine sia abbastanza ampio (nel primo semestre 2019 l’Ebitda è stato 3,2 miliardi di dollari, contro i 5,6 del primo semestre 2018), un ulteriore peggioramento dei margini e del debito non potrà essere tollerato.
Per queste ragioni, Lakshmi N. Mittal, capo di ArcelorMittal, ha dichiarato che “è necessario intraprendere ulteriori azioni per affrontare il crescente livello delle importazioni che entrano nel continente a causa di misure di salvaguardia inefficaci e continuiamo a impegnarci con la Commissione europea per creare parità di condizioni per il settore”. Date le condizioni di mercato e l’eccesso di capacità a livello globale, solo la Commissione europea è in grado di far recuperare profittabilità alle produzioni europee.
In attesa che l’attività di lobbying con la Commissione porti a risultati concreti, ArcelorMittal ha deciso di tagliare di quasi il 20 per cento (4,2 milioni di tonnellate) la propria produzione annua europea, e un modo rapido e relativamente poco costoso è stato offerto dal nostro governo revocando lo scudo penale. Rimane da capire se la decisione di Arcelor Mittal sia definitiva, oppure se, con le opportune concessioni, possa ritornare sui propri passi. In ogni modo, il taglio del 20 per cento della produzione andrà avanti, ed è probabile che il suo costo sociale, almeno per la parte riguardante l’ex Ilva, rientri nelle concessioni che ArcelorMittal si attende dal nostro governo.

Francesco Lenzi, da www.lavoce.inf

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