Tra Fca e Psa un buon matrimonio

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Equilibri complessi
di Antonio Sileo

Dopo un anno di fidanzamento e un corteggiamento iniziato nella seconda metà del 2018, subito dopo la scomparsa di Sergio Marchionne, il matrimonio del secolo – la fusione tra Fca e Psa – è stato sancito il 16 gennaio con la nascita di Stellantis.

Passata l’ottima accoglienza iniziale in borsa, il titolo quotato a Milano, Parigi e New York, ora non brilla, ma i giudizi degli analisti restano positivi, anche perché sono previste la cessione della azienda francese di componentistica Faurecia e lo scorporo, lato italo-statunitense, di Comau, specializzata in automazione e robotica, operazioni già decise per arrivare a una fusione alla pari. Fca è infatti è più grande, più redditizia e con una maggiore presenza globale.

Il nuovo gruppo ha sede legale ad Amsterdam, come Fca, ma residenza fiscale e direzione generale a Parigi. Sul piano contabile è stata Peugeot Sa, capogruppo di Psa, ad acquisire Fca, mentre degli undici componenti che formano il consiglio d’amministrazione, sei sono stati scelti da Psa e cinque da Fca. Tra i primi, però, vi è anche Carlos Tavares, già presidente del consiglio di gestione di Psa e ora amministratore delegato di Stellantis, la cui presenza in Cda è sicuramente scelta fatta in comune. John Elkann, già presidente di Fca, diventa presidente del nuovo gruppo, unico con deleghe esecutive insieme all’amministratore delegato. Primo azionista, con il 14,4 per cento del capitale, è Exor, controllata dalla famiglia Agnelli, seguita dalla famiglia Peugeot con il 7,2 per cento, dallo stato francese con il 6,2 per cento e da Dongfeng, tra i maggiori produttori cinesi di autoveicoli e componentistica, interamente controllata dal governo della Repubblica popolare, con il 5,6 per cento.

Una scelta inevitabile

Un’alchimia complessa in cui alcuni osservatori – tra cui Romano Prodi – avrebbero voluto anche la presenza dello stato italiano, per controbilanciare la presenza di quello francese a difesa e rilancio degli stabilimenti e del saper fare italiano.

Il perdurante dilagare della pandemia ha reso il gioco ancor più difficile e le sfide che attendono il mondo automobile sono titaniche: regolamentazioni sempre più stringenti, corsa all’elettrificazione e alla guida autonoma, nuovi concorrenti, cambiamenti nelle scelte e nei comportamenti degli acquirenti (da ultimo la “scoperta” del lavoro da remoto). L’innovazione forse più iconica del XX secolo per continuare a viaggiare anche nel XXI dovrà percorrere strade inesplorate, che necessiteranno di ingenti investimenti e visioni davvero nuove.
Lo spopolamento dei listini dei marchi italiani – Alfa Romeo, Fiat, Lancia e Maserati – continua inesorabile da anni: senza una svolta radicale (anche con apporti tecnologici esterni) difficile immaginare un futuro non disastroso. Citiamo solo il caso Alfa, la cui gamma oggi consta di sole tre vetture, con la Giulietta in listino da undici anni, un decimo di quelle offerte da Bmw e addirittura meno della metà di quelle proposte dalla Ferrari.
La fusione, quindi, non può che essere accolta con favore. La condivisione di piattaforme e sistemi di propulsione si prospetta più che favorevole, anzi (insieme alle capacità di Tavares) un vero affare per Fca, che in poco tempo potrà recuperare il gap sulle vetture elettrificate, ma anche (ci auguriamo) ritornare nel segmento B, incredibilmente abbandonato dopo 47 anni di successi, dalla 127 all’ultima Punto. Sarà possibile grazie alla piattaforma Cmp di Psa, per capirci quella della Peugeot 208, dell’Opel Corsa, ma anche delle crossover 2008 e Mokka, che accoglie motori benzina, diesel ed elettrici. Su questi ultimi Fca non è ancora ben partita e sul diesel ha tirato i remi in barca prima del tempo. Nei segmenti C e D Psa porta in dote la piattaforma Emp2, che già prevede modelli ibridi plug-in.

Per parte sua, infatti, Fca porta in dote la piattaforma Small, quella di 500 e Panda: non è nuovissima, ma può esistere una Fiat senza 500 e Panda? Quest’ultima, da anni la più venduta in Italia, nell’annus horribilis 2020 ha comunque sfiorato quasi l’8 per cento del totale del mercato.

Più opportunità che minacce

Il segmento A è quello più (ingiustamente) penalizzato dagli obiettivi europei sul contenimento delle emissioni di CO2, che nel complicato calcolo delle salate sanzioni tengono conto della massa media delle vetture vendute nell’anno, e al contempo è quello più difficile da elettrificare.
Carlos Tavares, in una inevitabile opera di risanamento, ha già dovuto sacrificare le piccole Opel Adam e Karl, e ha sciolto la joint-venture Aygo-C1-108 lasciando lo stabilimento di Kolin, in Repubblica Ceca, alla sola Toyota. La multinazionale giapponese, forte dei risultati delle sue vetture ibride, nel 2020 è ritornata in testa alla classifica delle vendite mondiali e produrrà da sola la terza serie dell’Aygo.
Anche Luca De Meo, da sei mesi a capo di Renault, ha appena annunciato con rammarico l’addio al segmento A, anche per la fine della collaborazione con Mercedes nello stabilimento sloveno di Novo Mesto, dove su una sola catena di montaggio vengono prodotte Twingo e Smart.

Per Fca è un’occasione: le superutilitarie sono le vetture più adatte alle nostre congestionate città e i regolamenti europei non sono scritti sulla pietra (entro il 2023 la Commissione europea dovrà i criteri per il conteggio delle emissioni).

Molto del successo di Stellantis dipenderà dall’operato di Tavares, che nella fusione ha dimostrato ottime doti diplomatiche. Il manager portoghese è molto più uomo di prodotto che di finanza, un vero appassionato d’auto, tanto che – lo prevede persino una clausola nel suo contratto – quando può va in pista a gareggiare con auto storiche. Tutto ciò si somma alle sue primissime dichiarazioni sulle collocazioni – Alfa Romeo e Lancia insieme a DS nel premium, Maserati nel lusso – e lascia ben sperare per marchi che meritano un futuro all’altezza della loro storia. (LaVoce.info)

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