
Londra – Nel cuore dell’Europa, tra gli echi di una guerra alle porte e la tensione di un ordine multipolare in espansione ma ostile all’Occidente, sta riemergendo un’antica narrativa: quella dell’invasione.
Non più affidata ai romanzi ottocenteschi o ai saggi militari della Belle Époque, ma a report istituzionali, editoriali geopolitici e dichiarazioni strategiche.
Questa “nuova letteratura dell’invasione” alimenta la corsa al riarmo dell’Unione Europea, giustificandolo non solo con la guerra in Ucraina, ma con una visione più ampia e sistemica del mondo.
È qui che torna attuale la riflessione di Giambattista Vico sui ricorsi storici: la storia non si ripete mai uguale, ma si ripropone con logiche simili.
Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, in paesi come Regno Unito, Francia e Germania, fiorisce un filone letterario che prefigura invasioni straniere, sottomissione nazionale e fallimenti strategici.
Il romanzo The Battle of Dorking (1871) di George Tomkyns Chesney rappresenta il prototipo: la Gran Bretagna viene sconfitta da una potenza germanica per impreparazione militare.
Nel contesto pre-1914, esistono veri e propri testi programmatici scritti da militari tedeschi che legittimano la guerra come scelta razionale e necessaria.

- Friedrich von Bernhardi, nel saggio Germany and the Next War (1911), afferma:
“La guerra è una necessità biologica… senza di essa si sviluppa una civiltà malata.”

- Heinrich Claß, in Wenn ich der Kaiser wär (1912), auspica una guerra preventiva per garantire la supremazia della Germania in Europa.
- Lo Stato Maggiore tedesco sviluppò simulazioni belliche (Kriegsspiel) e piani di attacco rapido (piano Schlieffen) in vista di un conflitto considerato inevitabile. La logica sottostante era: “meglio una guerra oggi con vantaggi, che una guerra domani con l’inferiorità.”
Questi testi condividono elementi comuni:
- tono profetico e apocalittico;
- denuncia della debolezza politica e pacifista interna;
- esaltazione dell’identità nazionale minacciata;
- invito esplicito al riarmo.
La loro funzione non era solo narrativa, ma politica: condizionare l’opinione pubblica e legittimare scelte belliche.
Nel XXI secolo, la narrativa cambia forma ma non sostanza.
Oggi sono i rapporti del Parlamento Europeo, della NATO e dei think tank come l’European Council on Foreign Relations a riprendere il paradigma dell’invasione. Le minacce sono ora ibride, cibernetiche, asimmetriche. La Russia di Putin è l’attore principale, ma anche la Cina, i “fallimenti strategici” dell’Africa e l’instabilità del Mediterraneo diventano scenari di preoccupazione.
Le dichiarazioni del segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, nel 2024 hanno sottolineato: “L’Europa deve prepararsi a uno scenario di alta intensità. Non è più il tempo della dissuasione simbolica.” Simili concetti sono presenti nel documento UE “Strategic Compass for Security and Defence” (2022), che stabilisce il percorso per un’autonomia militare europea complementare alla NATO.
Dal 2022, l’UE ha aumentato drasticamente gli stanziamenti per la difesa.

Il bilancio militare aggregato dei 27 è cresciuto del 22%, superando i 280 miliardi di euro.
Le industrie più coinvolte:
– droni e difesa aerea;
– cyber-sicurezza;
– logistica e interoperabilità;
– eserciti digitali e spazio.
Il paradosso è che mentre si parla di stabilità e diplomazia, il linguaggio è sempre più bellico.
L’Europa, senza dichiararlo apertamente, si sta costruendo la propria letteratura dell’invasione.
Oggi non con romanzi, ma con budget, piani strategici e scenari di crisi.
La lezione storica è che queste narrazioni raramente restano innocue.
Alimentano timori, polarizzano l’opinione pubblica e rendono la guerra più “pensabile”.
Ed è proprio quando la guerra diventa pensabile, che spesso diventa anche possibile.
Riccardo Cacelli
r.cacelli@uam-vertiports.com


