La sterilità informativa ai tempi del Covid-19: uccidiamo il virus della superficialità e della “non-notizia”

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Quando si è verificato il primo caso di Coronavirus in provincia di Messina e il decreto non era ancora in vigore, ho realizzato un servizio presso l’ospedale Cutroni Zodda di Barcellona Pozzo di Gotto, chiedendo informazioni sul paziente che si trovava in loco presso il reparto di malattie infettive. Quel giorno oltre alla positività del paziente ho potuto constatare quanta gente (alcuni per paura, altri per una semplice influenza) sceglieva di recarsi all’ospedale per sottoporsi ai test di verifica.

Gli addetti del personale sanitario rimandavano indietro tali individui, perché chiaramente vi era il bisogno di avere l’autorizzazione del medico di famiglia e oltretutto, creare folla e calca non era affatto il caso in quel momento. Tra questa gente c’era chi disponeva di tale autorizzazione, ma una volta effettuato il tampone nella medesima giornata, il risultato è stato negativo.

Sulla base di questo concetto e sulla base di tutti i tamponi effettuati in Italia, chi fa informazione dovrebbe capire che la notizia non è basata su un semplice individuo che per scelta individuale o per controlli di precauzione viene sottoposto al test. Solamente la positività o la negatività di quest’ultimo sono il fondamento della notizia, altrimenti avremmo le nostre home page piene di articoli inutili per ogni tampone effettuato. Aspettare l’esito di un risultato e dare la BUONA o CATTIVA NOTIZIA è l’unica cosa che un giornalista possa fare (oltre ad augurarsi di non allarmare nessuno).

Novità, rilevanza e imprevedibilità sono tra le caratteristiche fondamentali che rendono tale una notizia, o almeno così sostengono i manuali sul giornalismo. Eppure soprattutto nell’ultima settimana, forse per una parziale mancanza di argomenti inediti da gettare nell’enorme calderone comunicativo del coronavirus, testate giornalistiche e altri mezzi di informazione stanno proponendo come notizie anche informazioni che proprio non lo sono.

E non si tratta tanto del mettere sotto i riflettori dei casi individuali, svelando particolari al limite della deontologia giornalistica, ma soprattutto del proporre come freschi dei contenuti che sono ormai ribolliti, che hanno scarsa rilevanza o che erano del tutto prevedibili. O, magari, tutte e tre le cose assieme.

Ormai è chiaro da giorni: la crescita del numero di persone coinvolte dall’infezione sta seguendo in modo terribilmente preciso un modello matematico esponenziale, che porta non solo ad avere ogni giorno numeri più grandi, ma anche a una progressiva accelerazione del ritmo stesso della crescita.

Vediamola al contrario, in senso positivo. La notizia, quella buona e da gridare con grande soddisfazione, ci sarà quando l’attuale tendenza sarà invertita, nel senso eclatante che i contagi avranno finalmente iniziato a calare il ritmo, oppure perlomeno che la crescita avrà smorzato la sua corsa dal temibile incremento esponenziale verso qualcosa di meno ripido. È questa la notizia che tutti speriamo di poter dare ogni pomeriggio alle 18:00 dopo aver sentito le parole del numero uno della Protezione civile Angelo Borrelli, ma che al momento purtroppo non c’è.

“Mi spiace, ma non c’è posto”. L’infermiere pronuncia queste parole asciugando la fronte piena di sudore e può farlo perché non ha nessuna mascherina di protezione, sono finite, da un pezzo, come i posti in terapia intensiva. il turn over è stato lento come il tempo di cui ha bisogno una ruga per scavarsi sul volto. Il turn over del contagio invece è stato rapido come un Frecciarossa e i passeggeri non scappano per ricongiungersi con famiglia e radici, neanche il tempo di esultare per aver infranto le barriere. Le regole si estendono a tutto il paese, gli incoscienti che ci governano adesso hanno il volto da funerale. Non ci sono più boccali di birra, selfie, tavolate, messaggi rassicuranti, sorrisi. Non ci sono più bozze che circolano improvvisamente, non ci sono giornalisti a pubblicarle in anticipo, non ci sono folli con le valigie in mano.

È finito il tempo degli aperitivi, dei gelati, delle comitive. Gli untori diventano contagiati, i contagiati diventano untori, gli asintomatici contagiano ma non lo sanno, i sintomatici più fortunati sono quelli che hanno avuto la forza di ucciderlo. Il virus della superficialità ha vinto ancor prima del virus reale, il virus dell’individualismo post-moderno, quello che ha issato la libertà a diritto d’onnipotenza, ha pervaso ognuno di noi. La casa, un tempo focolaio, rifugio di valori e simbolo della comunità chiamata famiglia, adesso fa paura. Non c’è casa, non c’è letto, non c’è posto, resta il sudore, quello dei medici in corsia e degli infermieri costretti a scegliere la progressione della morte, costretti a stare lontani dalla loro casa, costretti a rischiare consapevolmente di essere i prossimi. È questo il più alto senso del coraggio, il sacrificio del dovere. Lo stesso che impone di essere messaggeri viventi di morte. “Mi spiace, ma non c’era posto”. Perché tanto tempo è andato perso, perché l’ego ha oscurato la mente e il cuore. Perché la comunicazione ha fallito, perché la politica ha fallito, perché noi giornalisti abbiamo fallito. Ha vinto la superficialità, ha vinto l’ignoranza, ha vinto l’incoscienza. Adesso speriamo solo di aver perso una battaglia e non la guerra, perché altrimenti non ci sarà posto nemmeno per il rimpianto.

Stefano Scibilia….un giornalista qualunque

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