Andavamo a camminare il mondo

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Lettere sgrammaticate, fogli scritti in una lingua approssimativa, unici legami tra la casa lasciata e un futuro incerto. Dai diari di Pieve Santo Stefano emergono le vite degli italiani emigrati all’estero. Quando la memoria insegna
Sono milioni gli italiani che nel secolo scorso hanno preso la via dell’emigrazione. Una scelta sofferta, talvolta necessaria per dare un senso a vite segnate da difficoltà, ristrettezze o curiosità insopprimibili. E così da ogni angolo della penisola è iniziato un lungo esodo verso terre lontane. Un popolo che si muove cercando di costruire le condizioni per un futuro migliore: chi parte non sa cosa l’aspetta, ogni viaggio rappresenta un’incognita e una possibilità inedita.
Mettersi in cammino senza perdere il contatto con le proprie radici, con luoghi e affetti segnati dalla malinconia di un passato perduto. E così la scrittura, talvolta incerta e frammentata, diventa un ponte, una via di comunicazione, un appiglio prezioso contro paure e incertezze. Quella straordinaria riserva di memorie che è l’Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano conserva oltre mille documenti riconducibili all’esperienza dell’emigrazione italiana. Un volume ne ha presentato una selezione (Amoreno Martellini, Abasso di un firmamento sconosciuto. Un secolo di emigrazione italiana nelle fonti autonarrative, Mulino, 2018) con la convinzione (e la speranza) che «le nuove dinamiche del dramma migratorio possano restituire centralità alla storia degli emigranti italiani». «Per aprire gli occhi bisogna camminare il mondo», scrive un italiano emigrato in Argentina quasi un secolo fa.
Conoscenza come consapevolezza: un piccolo grande messaggio contro vecchie e nuove intolleranze.
soli, pronti ad allontanarsi, per alleggerire alla città il peso dei senza occupati, portandosi nel cuore il calore degli affetti famigliari e dei ricordi più cari.
Era il primo convoglio ad andarsene dalla città, altri ne seguirono più distanziati nel tempo. Alle 6.00 precise del 7 maggio, il treno emigrante voluto dalla prima Repubblica del dopoguerra, si avviò lentamente per andare a fare capolinea a Torino, per poi proseguire oltre confine verso il futuro lavoro, volendo tutti sottrarsi da quell’incantesimo di miseria in cui si era stati legati.
[…] Ero al finestrino, quando il treno si era già allontanato di circa 200 metri, mentre vidi mio padre girarsi di spalle per non farsi vedere da me piangere.
Francesco Ibba (nato in provincia di Oristano, espatriato clandestinamente in Francia nel
1947)
Sapevamo che in Francia era iniziata la ricostruzione ed avevano bisogno di molta manodopera e che da Bardonecchia si poteva passare clandestinamente pagando una certa somma alle guide che ci avrebbero accompagnato fino alla frontiera. […] Dovevamo partire all’improvviso, senza che nessuno sapesse niente e seguire la via clandestina di Bardonecchia. […]Verso l’imbrunire arrivarono le guide, il prezzo da pagare era di mille lire, cinquecento prima della partenza ed il resto appena varcato il confine con la Francia.
Il percorso non era per niente facile, dovevamo salire sulle montagne fino a duemila metri, in fila indiana ed in silenzio. Il gruppo di clandestini era di venti persone. Verso le quattro del mattino, dopo aver camminato per quindici chilometri, stanchi ed ansiosi perché andavamo incontro ad una nuova vita piena d’avventura, finì la salita e ci trovammo in territorio francese.

UMBERTO GENTILONI, da Repubblica

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